domenica 24 ottobre 2010

Corleone vs Soprano, the gangster stereotype still affect Italian American identity

Loud, vain, overweight, rude. Terrible weakness for gambling and gluttony. Easily corrupted gangsters, thieves and liars who strongly emphasize family ties while they can't stand each other and backstab constantly. Popular mithology and unfair stereotypes about the Italian American community have deep roots.

Though similar gangster stories have been told before in films, tv drama and games, "Mafia II" has recently hit a nerve with the US's largest Italian American heritage foundation. The popular action game was accused of "inappropriate and insulting perpetuation of the pervasive and denigrating stereotype of organized crime being the exclusive domain of Italian Americans".

Good people in real life far outnumber any bad apples: throughout the United States history, Italian Americans have made significant contributions in the Arts, in the field of education, science and innovation. Not to mention show business, sports, politics. The current Speaker of the United States House of Representatives Nancy Pelosi has Italian origins. Geraldine Ferraro, whose parents were Italian, was the first woman vice presidential candidate for a major American political party (segue..)

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venerdì 15 ottobre 2010

salviamo il congiuntivo

Si sente parlare da tempo della poca familiarità dell'italiano medio con il congiuntivo e dell'uso sempre meno frequente che se ne fa. Scommetto che chiunque ne ha almeno sentito parlare alle elementari. Sapete, quel tempo che si usa solitamente per esprimere ipotesi o dubbio quando la frase subordinata è retta da congiunzioni come - che, se, perché, affinché e così via.

La sindrome dell'impossibilità a coniugare il congiuntivo viene ironicamente definita "congiuntivite" ed è motivo di crescente preoccupazione fra i letterati che temono un progressivo imbarbarimento della nostra elegante lingua madre. Appelli, proteste, studi. C'è anche un blog, "salviamo il congiuntivo".

Però devo proprio dirvelo, o letterati, siamo messi male. Mi è capitata una cosa che mi ha fatto capire quanto ormai ci trovamo di fronte a un punto di non ritorno. Mentre parlavo utilizzando un registro certo non aulico ma senza dubbio grammaticalmente corretto, il mio interlocutore mi ha interrotta per correggere..un congiuntivo. Sì, per suggerire al suo posto un banalissimo tempo presente. Non credevo alle mie orecchie. Mi era già capitato in passato di notare sguardi perplessi quando si sceglie di usare un corretto uso della lingua al posto dello slang da chat, ma questo era un fatto nuovo, un segno rivelatore.

L'uso quotidiano della lingua che tutti noi facciamo si è dunque definitivamente  imposto sulla nostra grammatica. E' così che si modificano le lingue e ho proprio paura sia un processo irreversibile. Se ritenuta idonea dalla maggior parte dei parlanti, allora la modifica sarà adottata. Con buona pace dei puristi delle lingue e dei nostalgici (inclusa me) che si ostineranno ad usare il vecchio e desueto congiuntivo almeno per un po'.

lunedì 11 ottobre 2010

Arte moderna sui muri di Architettura

In un mondo in cui tutti hanno perso la testa, c'è chi la cerca affannandosi e chi invece è felice e leggero senza. Toni surreali per le figure essenziali che affermano prepotentemente la propria esistenza nello spazio confinato, eppure reso magicamente tridimensionale, di un muro bianco. La città universitaria di viale delle Scienze a Palermo mostra la nuova opera d'arte realizzata dal collettivo Vira-lata sul muro d'ingresso dell'edificio 14 sede della facoltà di Architettura.

In portoghese Vira-lata significa "senza razza definita" ed è un aggettivo solitamente riferito agli animali. Non a caso, il simbolo del duo formato da Elena Gisbert e Rebeca Ros è proprio un cagnolino. Non è la prima volta che le  due ex studentesse dell'Accademia di Belle Arti di Valencia, in Spagna, collaborano con l'associazione culturale Punta Comune. Il presidente, Antonio Valguarnera, spiega come l'iniziativa sia nata da un'idea dei membri dell'associazione e da un suo personale obiettivo. "Il preside di Architettura Angelo Milone lì per lì non sembrava entusiasta dell'idea - racconta -  La comprensibile motivazione del suo scetticismo era il timore che altri potessero seguire l'esempio, ma senza autorizzazione. Abbiamo reso molto chiaro, scrivendolo in evidenza, il fatto che questo murales sia stato promosso dall'Università degli studi di Palermo". Sembra ragionevole: in fondo, piuttosto che imbrattare i muri, perché semplicemente non domandare l'autorizzazione per realizzare un'opera d'arte? (segue..)

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domenica 3 ottobre 2010

just a note

caro benedetto,

mi permetto di scriverti anche se non ci conosciamo. in fondo, visto che ti fai quasi quotidianamente i fatti nostri, sembra quasi naturale darti del tu. certo, non sono mai stata una cattolica modello, però sono una brava persona e non ho mai avuto nulla contro la chiesa né contro la religione, fino a pochi anni fa. devo proprio dirtelo benedetto, ci andavo anche in chiesa qualche volta, finché non ho conosciuto te. so che dormirai ugualmente stanotte ma volevo che sapessi. 

sono molto contenta che abbiano ripulito la città di palermo in occasione della tua visita. Hanno svuotato finalmente i tombini stracolmi di tusaicosa, sì quelli che esplodono ogni volta che piove; hanno potato gli alberi che coprivano i cartelli stradali causando incidenti e hanno anche sostituito le lampadine fulminate. ma soltanto dove passavi tu. sono un po' gelosa devo dire. sai, mi hanno investita sulle strisce pedonali la settimana scorsa in pieno centro e solo perché quella strada non era illuminata dalla luce della tua santità: da anni i lampioni sono spenti, kaputt. se solo fossi stata sul tuo percorso, forse non avrei rischiato la vita. ma non ti preoccupare, tutto sommato sono miracolata anche se non posso dire sia merito tuo.

quanto al tuo discorso di oggi, per quel che ne ho sentito, avrei una domanda: ma ci credi veramente a quello che dici? non sarai tanto ingenuo da pensare che la mafia sia qualcosa di alternativo, un universo parallelo. la mafia è un modo di pensare, uno stile di vita che si impone con la forza ad una intera collettività. qualcosa ti suona familiare, eh?

capisco che sei straniero e che la città del vaticano sarà una noia mortale ma credo proprio che qui a palermo la digos abbia cose ben più urgenti che fare sparire striscioni e locandine. e immagino avrà avuto un gran bel da fare oggi. ti rendi conto che non ha senso parlare di mafia con questi presupposti, vero?

mi piaceva gesù, a suo modo era un rivoluzionario.
tu sei un vecchio conservatore nel peggiore dei modi.
rassegnati, benedetto: non piaci a nessuno


domenica 19 settembre 2010

I Park Art: il parcheggio diventa galleria, teatro, evento

Esposizioni improvvisate e coloratissime, performance surreali e una lunga fila di passanti curiosi. La prima edizione di I Park Art ha movimentato il pigro sabato pomeriggio nel cuore di Palermo. Venticique artisti hanno letteralmente "parcheggiato" se stessi e le proprie opere sulle strisce blu adibite al posteggio delle auto.

Tramite il regolare acquisto del tagliando, scultori, pittori, fumettisti, performer, body-painter e fotografi hanno potuto occupare il suolo pubblico per esprimere la propria creatività ed avere la possibilità di esporre i propri lavori ai passanti. L'iniziativa, completamente autogestita e senza scopo di lucro, è stata un grande successo, soprattutto per una città come Palermo, considerata la proverbiale lotta quotidiana alla ricerca di un parcheggio. Come conferma Marianna Ippolito, dell'Associazione Errecubo organizzatrice dell'evento: "L'iniziativa si è svolta in molte città internazionali come Parigi, Lima, Città del Messico, Milano, Roma. Il maggiore successo finora  si era registrato in Francia, con la partecipazione di 20 artisti. Qui a Palermo abbiamo fatto meglio, siamo venticinque" (segue..)

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domenica 12 settembre 2010

Storie di cervelli in fuga - Loredana

Una volta tanto il presidente del consiglio una cosa vera l'ha detta: "I giovani italiani, per affermarsi, non devono avere paura di andare all'estero". Non sa che la paura non è neppure un'opzione. I giovani, semplicemente, non hanno altra scelta

Caro diario,
sono andata via da Napoli nel 2006, per non tornarvi mai più. La scelta di lasciare la mia città non è stata così ardua in fondo. Avevo ormai 35 anni, una vita sfiancata dalla paura della fame alle mie spalle e nessun lavoro stabile all'orizzonte. Nessuno dei miei amici era rimasto in città: nel corso di quindici anni sono partiti tutti per cercare lavoro altrove. Anche il mio ragazzo mi aveva lasciata, spaventato proprio della mia instabilità lavorativa.

Grazie alla mia laurea in Lingue e letterature straniere moderne (olandese, inglese, spagnolo), la specializzazione in Linguistica e Glottodidattica e il master in Traduzione letteraria ottenuto all'università Lessius in Belgio, ero riuscita a lavorare saltuariamente in Italia come guida turistica. Ma anche per ottenere questo impiego sottopagato e in nero mi ero dovuta piegare e chiedere aiuto (si fa per dire) a qualcuna delle mie "conoscenze".  Tuttavia, nonostante la mia preparazione, non sono mai riuscita a trovare lavoro come insegnante e continuavo a vivere da sola, sempre nell'incertezza, sempre nella paura.

La goccia che fece traboccare il vaso fu il fatto che dopo avere tradotto ed essere riuscita a pubblicare un libro grazie ad un progetto con un ente olandese (In Europa, di Geert Mak), compresi come andavano realmente le cose in Italia: non solo si è sottopagati ma non importa l'impegno che ci metti, né quanto sei bravo. A fine progetto continuavano a lavorare solo pochi traduttori "designati", ovvero sempre gli stessi nomi. Un modo chiuso, come per me è ora l'Italia.

Quando sono partita per l'Olanda non avevo nulla, a parte il bagaglio culturale che avrebbe dovuto aiutarmi a trovare un buon lavoro insieme ad una discreta conoscenza  della lingua. Anche se ritardato, il mio progetto di vita poteva finalmente cominciare. L'inizio non è stato facile, il clima faceva schifo e gli olandesi non m'ispiravano molta simpatia. Ma quel poco che ho avuto, l'ho avuto dall'Olanda: tanto per cominciare, un appartamento in cui abitare, che non era il massimo ma costava poco e mi era stato assegnato per via di un piccolo handicap da cui ero afflitta. Dopo poco ho cominciato a ricevere offerte di lavoro e ad affrontare colloqui, cosa per me del tutto nuova. Altro aspetto piacevole ed inaspettato, le proposte romantiche degli uomini, cosa che in Italia (perlomeno a Napoli) non mi capitava da quando avevo superato i 30 anni. Sembrava dunque un buon inizio...

Sono subito entrata nel giro dei call center e ho cominciato a lavorare con esiti mediocri in questo nuovo girone degli accidiosi dell'inferno dantesco, prima al desk e poi come coach e trainer (non pagata). Ho lavorato anche come guida turistica. Sembrava andare bene finché una folle mi ha licenziata. Credo abbia capito che ero brava davvero (almeno quella è l'unica spiegazione che riesco a darmi). Ora cerco lavoro come docente sperando di riuscire a farmi convalidare la laurea italiana che qui non serve a nulla.

In Olanda la recessione economica non esiste: un'infinità di lavori, un sacco di soldi in giro, i prezzi sono gli stessi, i salari (quelli degli olandesi) sempre alti, le statistiche non sembrano cattive. Sì, si sente parlare di crisi, ma forse la cosa riguarda solo le ditte straniere. Quello che so è che io cerco ancora lavoro. Del resto, se la tua azienda ti lascia fuori a 39 anni diventa difficile trovare una nuova occupazione.

Ma non tornerei mai Italia, dove si fa la fame! Al mio paese penso ormai come a un piacevole luogo di vacanza. Però mi manca l'affabilità della gente, la cortesia, mi manca soprattutto quell'essere considerata con rispetto, con simpatia. In Olanda ho spesso la sensazione di essere solo "la straniera". Magari è solo una sensazione.

--The brain drain diaries raccoglie testimonianze reali di italiani all'estero--


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sabato 11 settembre 2010

Molestie verbali in strada, la rivincita delle donne è solo virtuale

In un episodio della serie Sex and the city, una delle protagoniste è infastidita da un operaio in strada che più volte le rivolge proposte indecenti. Esasperata, gli si avvicina con fare intimidatorio e gli urla in faccia in maniera altrettanto volgare incoraggiandolo a passare all'azione. L'uomo, evidentemente italoamericano, risponde imbarazzato: "Ci vada piano signora, sono sposato". Il più delle volte basta rispondere a tono per mettere in fuga il "macho a parole".

In un paese come il nostro, in cui il mito dello sciupafemmine è duro a morire, non sorprende dover constatare quanto la pratica della molestia verbale sia diffusa. Mi sono sempre e sinceramente chiesta se questi approcci abbiano mai suscitato l'esito sperato, diciamo dalla preistoria in poi. A me sembra che la maggior parte delle donne tenda ad ignorare chi li emette ma per qualcuna la situazione può diventare insostenibile e allora un apprezzamento non gradito può costare la vita al malcapitato.

Almeno così capita nella realtà virtuale. Sembra abbia suscitato polemiche l'uscita di "Hey baby", il videogame in cui un'eroina uccide a sangue freddo chiunque infastidisca le passanti. Tutto è nato dall'ironia di una studentessa canadese che, esasperata dagli uomini che la apostrofavano in metropolitana, ha deciso di vendicarsi ideando un gioco tradizionalmente maschile in cui ai maschi si spara senza esclusione di colpi.
I detrattori del gioco - ovvero coloro che si sono offesi - pongono la questione sul rischio di mettere sullo stesso piano un maldestro complimento, l'attività di uno stalker o peggio ancora uno stupratore. Si può cautamente affermare che ogni donna possieda una discreta capacità di distinguere i commenti, per quanto pesanti (caso in cui il lanciafiamme proposto dal videogame sembra francamente eccessivo) dalle molestie vere e proprie (segue...)

sabato 28 agosto 2010

la maschia

G: "Ho un'audizione, 
per la parte di un transessuale"
S: "Quando, dove?"
G: "Domani a Catania"
S: "Ok, partiamo" 






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Il mattino ha l’oro in bocca

Sono le sette del mattino di un Venerdì Santo. Suonano alla porta. E’ Giosafat, capelli sciolti sulle spalle, abito elegante e tacchi vertiginosi. Esordisce con un fatto, grave, viste le circostanze: “Non sono riuscito a farmi la barba, ho perso le chiavi di casa ieri e ho dovuto dormire da un’amica”. Penso che eviterò di offrirgli del caffé e lo invito ad usare il rasoio. Passino le gambe non depilate, ma occorre almeno radere il viso per presentarsi all’audizione. Il mio amico sa bene che non sarebbe altrimenti credibile nella parte di un transessuale.

Durante il viaggio musica e chiacchiere sembrano distrarre Giosafat dall’apprensione per l’audizione delle undici. Il commissario Montalbano piace a tutti, sicuramente quella mattina piace molto a noi occupanti del veicolo blu metallizzato che si sposta a velocità moderata sull’autostrada Palermo-Catania. Se fosse un film, a questo punto ci sarebbe una ripresa dall’alto. L’auto solitaria che viaggia sulla strada deserta in un giorno assolato, con successivo close-up sui personaggi: io e Giosafat sul sedile posteriore, comodi come in salotto. Laura alla guida mantiene velocità di crociera e a turno ci chiede a prestito gli occhiali da sole. Sergio rulla sigarette con la sua miscela di tabacco preferita, cambia musica di tanto in tanto e ci ricorda che è fuori luogo pretendere da lui una conversazione brillante prima di mezzogiorno. E la macchina va.

Montalbano sono

Gli uffici dell’agenzia si trovano al primo piano di un bel palazzo antico nel centro di Catania. Altri attori affollano la piccola anticamera, sono lì per ruoli diversi, tutti con appuntamento alle undici. C’è una donna molto bella, probabilmente straniera, ricorda tanto l’amica svedese di Salvo. Poi c’è un uomo di mezza età, potrebbe sembrare un distinto uomo d’affari. Un paio di comparse e un picciotto sui vent’anni. Infine il nostro amico, per la parte di un bellissimo transessuale.
Giosafat è un po’ nervoso, guarda fuori dalla finestra, si siede, si alza. L’attesa non è lunga, gli auguro in bocca al lupo e, mentre aspetto, quasi litigo con un cornetto alla nutella. Avevo dimenticato la mirabile usanza catanese di strafare nella farcitura dei cornetti. 


La barista in crisi

Finita l’audizione Giosafat ha, giustamente, fame. Dimenticando di aver mai avuto a che fare con cornetti stracolmi di nutella, ci tuffiamo nel primo bar della piazza. Un cannolo, grazie, un’acqua tonica. L’affabile proprietaria sembra distratta, guarda Giosafat, guarda me, guarda tutto il gruppo, guarda Giosafat, mentre noi la osserviamo impietriti e increduli agitare una bottiglietta di Schweppes e aprirla. La piccola esplosione ci investe nell’ilarità generale. La donna confessa candidamente di aver creduto di aprire un succo di frutta, mette da parte quel poco che rimane dell’acqua tonica e afferra un’altra bottiglietta, facendo più attenzione questa volta.
Rotto il ghiaccio, la conversazione si sposta sui temi caldi del giorno: “Sì davvero una bellissima giornata. Siete turisti? La crisi ha colpito anche noi, non ricordo un anno così…” giunti all’argomento recessione, uno spontaneo velo di silenzio (seguito da impercettibile sospiro) altera il ritmo del discorso.
Al che, la signora spiazza tutti offrendo l’acqua tonica sopravvissuta al piccolo incidente: “Sarebbe un peccato buttarla”. Ringraziamo sorpresi da tanta inaspettata gentilezza e chiediamo il conto. Salvo accorgerci, appena fuori, che ci ha addebitato entrambe le bottiglie e a prezzo pieno.

Virale o autoimmune?

E’ una calda giornata primaverile, u liotru domina la piazza, ci guarda dall’alto del suo piedistallo con gli occhi inespressivi e quella specie di sorriso, a ben guardare agghiacciante. Correremo il rischio di rubare all’elefante la sua tradizionale scena. Adoro la perfezione di questa piazza, è raffinata, raccolta e invita a scoprirne le bellezze senza fretta. Non saprei dire cosa la rende tanto interessante dal punto di vista urbanistico, però è così che disporrei i mobili nel mio salotto, se ne avessi uno.
La piazza è gremita di gente: semplici passanti, anziani che bivaccano al bar, ragazzi che bivaccano sugli scalini, turisti erranti. Americani, soprattutto. Ma ci sono anche gli spagnoli del gruppo Semana Santa che al passaggio di Giosafat non riescono più a riportare le mascelle in posizione, rischiando di ingoiare le prime mosche di stagione. “¿Eso es un tio o una tia?”, il dubbio pervade il sacro gruppo.
Quando infine capiscono, sono le reazioni a sorprendermi. Gli uomini ridacchiano, probabilmente di se stessi e del proprio errore di valutazione. Le donne invece (ed è qualcosa che noterò spesso durante questa giornata) mantengono scolpita sul viso un’espressione di disprezzo, borbottando cattiverie a voce bassa. Ma non tanto bassa da non essere udite. Queste particolari turiste sembrano già abbastanza infastidite dal fatto di aver incontrato un uomo vestito da donna, e per di più di Venerdì Santo!

Giosafat attira molti sguardi diversi e provoca alterne emozioni: complicità, ammirazione, disprezzo, semplice curiosità.
Seduto in mezzo alla piazza in una posa da diva, sento aumentare i commenti intorno a noi. Da un simpatico: “Che siamo alla playa?!”, a un insistente “Ma chì è masculu o fimmina? Masculu o fimmina? Masculu è!”  il signore in questione mi parla nell’orecchio. Gli rispondo: “Sì ma non sempre”, confondendo definitivamente le sue idee. Al che l’uomo mi getta un’occhiata tra l’incredulo e il “profondamente ferito nei sentimenti”, retrocede appena un passo continuando a ripetere: “Masculu o fimmina?”. Finché l’intervento provvidenziale di due passanti risolve l’enigma: “Masculu, masculu è - lo rassicurano, con un’aria di sussiego dovuta probabilmente al fatto di essere portatrici di vagina - Però che bei capelli”.


La Maschia
 

Proprio quando pensavamo che la nostra giornata catanese fosse conclusa, registriamo l’incontro più genuino. Ci punta subito, appena prendiamo posto al tavolo e comincia a fissare Giosafat in maniera imbarazzante. Una bambina di sei o sette anni, lo guarda in silenzio e con la bocca aperta, a una distanza di dieci centimetri dalla sua faccia. Non riesce a credere ai propri occhi. Gli chiede in un italiano stentato “Sei uomo o donna?” e lui si diverte a mantenersi sul vago. Lo fissa ancora un po’ più da vicino e, con pazienza e stringente logica, gli spiega che siccome lui non è una donna non dovrebbe portare quegli abiti, né quei gioielli, né quella borsa. E conclude sentenziando: “Tu sei una maschia”.

La risibile teoria della bambina era dettata dalla sua totale mancanza di peli sulla lingua. Data la giovane età, probabilmente riferiva il pensiero dei suoi familiari sull’argomento. In questo caso, ma anche nel caso di molti passanti quel giorno, un uomo vestito da donna sembra minare le più fondamentali regole della convivenza civile. Come a dire, esistono delle convenzioni e vanno rispettate (pensiero discutibile ma comprensibile visto che molta gente non s’è ancora accorta che il mondo è un po’ più complicato di quello che potrà mai conoscere).


La percezione della “diversità” è ancora molto forte ma non sempre produce riprova sociale. Molti, specie fra i giovani, si mostrano interessati all’innocuo sovvertimento delle regole. Nel peggiore dei casi, trovano il travestimento qualcosa di cui farsi gioco.
Alla fine di questa bellissima giornata sono esausta, attraverso Giosafat mi sono resa conto di quanto sia logorante sostenere lo sguardo indagatore di chi non vuol vedere oltre l’apparenza.  


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the little tech theatre

Un giorno Anna Fici mi chiese di realizzare una copertina per il suo nuovo libro "Leggere e scrivere i media". Quando le inviai la prima cosa che mi venne in mente non ottenni una risposta, lei mi inoltrò direttamente la copertina con la mia immagine. Poco tempo dopo mi propose di partecipare con delle foto a tema alla presentazione-spettacolo del volume

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The little tech theatre porta in scena, con toni leggeri e divertiti, la complessità dei rapporti tra l’uomo e la tecnologia, le difficoltà di una rivoluzione digitale che incide sulla sfera sociale e privata in modo fin troppo invasivo.

Un percorso simbolico fra gli oggetti di cui non possiamo più fare a meno: telefoni cellulari, tastiere ultrasottili, display a cristalli liquidi, fotocamere digitali.
Ciascuna di queste fotografie intende raccontare un episodio ispirato ai quotidiani conflitti con la tecnologia che, se da un lato libera le nostre possibilità di comunicazione, dall’altro ci incatena attraverso una sottile assuefazione all’uso di internet, sms, chat, email, social networks.

La convergenza digitale ha cambiato irreversibilmente le nostre abitudini. Ci siamo evoluti in esseri simbionti che portano al collo la propria unità di accesso al flusso della comunicazione globale. Ciò che una volta era un semplice radiotelefono portatile è ora computer, apparecchio televisivo, macchina fotografica, radio ma anche i-pod, agenda elettronica, lampada tascabile.
Una specie di siringa tecnologica in grado di iniettare nei nostri cervelli dosi sempre più massicce di informazioni ridondanti, spesso inconsistenti o superflue.

Ma navigare nel flusso provoca assuefazione, sicché le alternative sono sindromi da astinenza - quando il telefonino è scarico o quando si interrompe la connessione ad internet - o di overdose – quando si trascorre l’intera giornata, al lavoro e nel tempo libero, a guardare un display o a parlare in un microfono.
Questo piccolo teatro tecnologico affronta e denuncia lo stress da new media e la compulsività digitale. Immagini crude ma complesse, oniriche eppure estremamente reali, raccontate con un tono ironico e dissacratorio, dal sapore surreale.

Una metafora dell’uomo post-postmoderno, simbionte bionico connesso e globalizzato che finisce per pagare l’illusione della libertà di comunicare con il peso schiacciante di un immenso flusso d’informazioni.
Imprigionato da catene che solo per definizione sono virtuali.

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venerdì 27 agosto 2010

chi beve e guida è un bambino cattivo

La lettura di questo blog è sconsigliata ai minori, ai deboli di cuore, ai puritani, ai ruffiani e agl'imbecilli.
E ora che siamo rimasti in pochi, si consiglia di procedere con cautela

Con la stagione estiva fanno più notizia le stragi autostradali di famiglie distrutte mentre andavano in vacanza ma a settembre sulla stampa nazionale torneranno di moda le stragi del sabato sera. Tutti giovani cadaveri rigorosamente sotto i trent'anni e possibilmente di bella presenza.

Poche settimane fa mi sono accorta di un grande cartellone pubblicitario per strada, di quelli per i quali non si bada a spese. Me ne sono accorta non perché fosse degno di nota ma per il fatto che sono particolarmente interessata all'argomento in questione. La faccia del deejay Linus (che si poteva dire giovane quando io andavo alle elementari) campeggiava su un fondo verdino raccomandandomi bonariamente di non bere prima di guidare. Nobilissimo il suo intento, ma pressoché inutile: se fossi un diciottenne neo-patentato ingranerei la marcia dopo aver dato un sorso alla mia birra e ripartirei a velocità facendo una sonora pernacchia al vecchio Linus dai capelli grigi.

Se vuoi convincere qualcuno devi fargli capire  che in qualche modo ti identifichi con lui e lo capisci. Gli autori di queste campagne dimostrano di non conoscere il target al quale si rivolgono che è, principalmente, quello dei giovani. Pensi che a uno cresciuto ad ammazzare zombie in un videogioco a dir poco agghiacciante freghi qualcosa del bonario sorriso di Linus? Ci penserà su dai due ai tre secondi prima di farsi un altro mojito.

Mi si potrà obiettare che non c'è stato mica solo Linus come testimonial. E' vero. In una precedente campagna multisoggetto, sempre dello stesso autore suppongo, un campione (o campionessa) sportivo/a sorrideva dichiarando che no, loro a guidare dopo aver bevuto non ci si mettevano proprio. Giovani che parlano ai giovani, ora sì che mi hai convinto. In effetti però, se ci penso bene la maggior parte dei giovani che conosco non pratica sport per mancanza di spazi e strutture adeguate, non va nemmeno in palestra, non sa chi siano quei tipi là se non occasionalmente quando ci sono le Olimpiadi in tv.

Nel caso di una comunicazione sociale così delicata, sono ben altri i mezzi persuasivi e i toni che andrebbero usati, se si volesse produrre qualche risultato e forse giustificare l'occupazione di spazi pubblicitari con l'impiego di soldi pubblici.

Di spot televisivi memorabili sull'argomento, francamente non ne ricordo. Il che è quanto dire. Ma ricordo bene invece alcuni commercials che giravano qualche anno fa sulle televisioni irlandesi. Ricordo di aver pensato che non mi sarebbe mai capitato di vedere una cosa del genere in Italia.



Anche questo fa pensare un po' più a lungo di due o tre secondi prima di bere ancora. Credo sia anch'esso irlandese ma ne ho trovato una versione tedesca, alla fine c'è scritto "vivresti con questo rimorso?".



Vi sentite anche voi come se vi avessero dato un pugno nello stomaco? Benissimo, è proprio l'effetto che doveva farvi. Non tutto deve essere così cruento, naturalmente, anche l'umorismo può essere usato per fare riflettere le persone su condotte potenzialmente pericolose come bere e mettersi alla guida. E' probabilmente meno efficace della cruda realtà ma sempre più interessante dei tipi che sorridono su fondi color pastello. Questo o questo ne sono l'esempio.





Accanto alla persuasione pubblicitaria, sarebbe opportuno anche avviare politiche mirate alla prevenzione di queste stragi. Ancora una volta l'esempio positivo ci viene dagli irlandesi, noto popolo di alcolizzati, che però sembrano mostrare più criterio di noi quando si tratta di divertirsi senza rischiare la vita: nessuno a Dublino e dintorni prende la macchina la sera per uscire. I taxi hanno prezzi molto contenuti, in qualche caso persino più convenienti degli autobus notturni. Ma queste politiche dettate dal buon senso sembrano non poter attecchire da queste parti.

Molto più facile mettere su posti di blocco, la via della repressione. Non ne nego l'utilità in termini di dissuasione dal mettersi alla guida ubriachi, ma i ragazzi sono ragazzi e rischieranno prima o poi, perché è nella loro natura. E poi, in tutta onestà, non c'è proprio nient'altro da fare che bere il sabato sera.

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il paese delle pezze

Sarò breve (la prossima volta)

Non so ancora come sono riuscita a passare l'esame di Economia politica. Correva l'anno 1998 e da studentessa di scienze della comunicazione mi domandavo che diavolo fosse la macroeconomia. Soprattutto perché sospettavo l'esistenza di una relativa microeconomia della quale però nessuno dei miei docenti mi aveva mai parlato (la genialità dei piani di studio delle università italiane).

Alla fine, con ritmi di studio che avrei potuto impiegare per passare altri tre esami, riuscii anche a prendere un buon voto in economia. Ma la cosa non riusciva ad appassionarmi. Leggevo e rileggevo quelle formule e avevo la sensazione che volessero farmele passare per leggi naturali, laddove io non vi scorgevo quasi alcuna logica. E' sicuramente un mio limite, tant'è che mi pongo ancora oggi le stesse domande.

Devo ringraziare gli analisti del web e della stampa infatti, se sono riuscita a capire qualcosa dell'origine di questa grande crisi mondiale. Che sia stata creata ad arte, che sia un fenomeno puramente psicologico o una ineluttabile recessione non sta a me stabilirlo. Quello di cui posso parlare per fonte diretta è sicuramente la progressiva degenerazione delle situazioni lavorative in un contesto come quello siciliano (e più in generale italiano) già di per sé anomalo.

Il paese delle pezze, s'intende, al culo, e delle metaforiche pezze che si mettono sempre e comunque ad ogni problema invece di cercare la soluzione più ragionevole, ché fa comodo così.

Per correttezza premetto che in Sicilia ho incontrato anche dei seri professionisti, gente che dà valore al lavoro, con i quali è stato un piacere avere a che fare. Sfortunatamente sono estremamente rari. Questo è in fondo il paese dei ricchi con le pezze al culo. I soldi sono sempre quelli, sono soltanto distribuiti male. Anzi, peggio che in passato. Chi potrebbe fare circolare denaro, lavoro e produttività si guarda bene dal farlo.

Il vero e proprio colpo di genio di questo sistema semi-feudale si ritrova nel concetto di "lavoro gratis". Ovvero volontariato dei lavoratori a favore di datori di lavoro più o meno improvvisati. Il trend dello zero budget sorprende perché proviene proprio da chi si potrebbe permettere di pagare per un ottimo lavoro. Sanno che il mercato è povero di alternative e ne approfittano con la massima tranquillità.

Questo naturalmente contribuisce a mantenere bassi gli standard. Quale professionista infatti lavora per la gloria? Un conto è se il mio lavoro va ad un'associazione no profit o se lo faccio per un amico. Ben altro se devo "lavorare gratis" (virgoletto perché sembra un ossimoro) per qualcuno che ricaverà del guadagno dal risultato della mia fatica. Non c'è dubbio che dovrei essere pagato in questo caso. E non serve essere un economista per capirlo.

La cosa che mi sorprende maggiormente è l'anormalità spacciata per consuetudine e l'arroganza di questa imposizione.
Ultimamente mi sento anche dire che "costo troppo". La tecnica più spesso utilizzata è sminuire il lavoro intellettuale per poter pagare la semplice esecuzione. Questo mi sembra anche più grave del fatto di essere pagati obiettivamente poco a fronte del reale costo della vita in Italia.

Al prossimo che mi viene a raccontare che qui il costo della vita è minore che in altri paesi europei risponderò che qui è soltanto più ingiusto. Un esempio? Pensateci un po', quale cifra pagate mediamente se sommate tutte le bollette casalinghe?

Sarà capitato solo a me di notare la differenza quando si vive all'estero? In tanti anni e tanti paesi diversi, non ho mai pagato più di 50 euro per il totale delle bollette (la mia parte quando dividevo un appartamento, s'intende), che includono acqua (quando si pagava, ad esempio in Irlanda è gratis e si capisce anche perché) luce, gas/riscaldamento, adsl (reale, non millantata).

E' forse un caso se paghiamo la benzina più cara d'Europa e godiamo del sistema di tassazione fra i più vessatori, a fronte della carenza di servizi ai cittadini più sfacciata del continente? Tralascio in questa sede l'allegra consuetudine dell'evasione fiscale.

Last but not least, i prezzi esorbitanti degli affitti. Un giorno di qualche anno fa, i proprietari di case devono essersi incontrati ad una grande riunione di condominio (è così che me li immagino) e devono aver deciso che s'alzava tutti i prezzi indiscriminatamente. Yeah!
Per abitare nel centro di Amsterdam pagavo 500 euro dividendo l'appartemento con un'amica. Altre 500 per una camera in villa in un quartiere residenziale di Dublino, non distante dal centro. Aspetta un attimo, stiamo parlando di capitali europee, esattamente come Roma. E ditemi, nel centro di Roma con 500 euro che sistemazione sarei in grado di trovare? Un tombino con servizi in comune?
Be' neppure a Palermo con meno di quella cifra ci si salva dagli scarafaggi ormai.

In pratica, in Sicilia, dove sono pagata meno della metà per le stesse otto ore di lavoro che facevo altrove, sborso un affitto non molto inferiore a quello che pagavo ad Amsterdam. Ok, non sarò un'esperta di economia né pretendo che la mia esperienza abbia valore statistico, però c'è sicuramente qualcosa che non va.

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